La nostra cultura si evolve verso orizzonti aperti

Oggi condividiamo contenuti sui social media, istituiamo leggi sulla trasparenza per coloro che ci governano, e alle nostre aziende non è più concesso di celare il modo di operare.

Per molti leader aziendali è tempo di affrontare una sfida difficile: imparare a tenere le redini sotto gli occhi di tutti.

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Cosa dicono de L'Organizzazione Aperta

"Dal mio punto di vista, Whitehurst scrive come un uomo a cui è stata offerta una miccia e non vede l'ora di far scintille. Red Hat, il cui valore di mercato è cresciuto del 300% sotto la sua conduzione, sembra pronta a fare un passo ancora più lungo."

Red Hat Submits a Job Application
(versione Inglese)

Seeking Alpha - 18 maggio 2015

"Per me, essere arrivato in un'organizzazione come questa e poter imparare sul campo è un dono straordinario. Una delle ragioni per cui ho scritto questo libro è raccontare proprio questo."

Red Hat CEO extols 'The Open Organization' in new book
(versione Inglese)

The News and Observer - 30 maggio 2015

"[...]L'ho intervistato due volte e ho maturato l'impressione di avere di fronte un uomo modesto, riservato, pronto a sdrammatizzare sulle situazioni assurde che, di tanto in tanto, ci si trova ad affrontare nell'industria delle tecnologie. È piuttosto insolito, poiché questo è un settore in cui l'egocentrismo, l'arroganza e il machismo esasperato sono caratteristiche diffuse tra i leader aziendali."

Red Hat CEO's book centres on importance of being open
(versione Inglese)

IDG Connect - 27 maggio 2015

"A differenza di un modello dirigenziale che detta ordini ai suoi sottoposti, nelle organizzazioni aperte la gestione è in gran parte autonoma. Citando Whitehurst, qualunque tipo di progetto - non solo quelli legati a soluzioni software – si fa strada attraverso Red Hat in modo naturale, fino a che diventa evidente per tutti che qualcuno debba occuparsene a tempo pieno."

Red Hat CEO: Here's how to create an 'Open Organization'
(versione Inglese)

InfoWorld - 28 maggio 2015

Per diventare un'azienda di successo occorre una leadership aperta

Il mondo è cambiato: le aziende che desiderano crescere (e avere successo) non potranno più farlo usando i metodi del passato.

L'Organizzazione Aperta è una lettura adatta a leader determinati a creare un ambiente aziendale pronto a reagire tempestivamente in un mondo dove tutto si evolve con gran rapidità; è dedicata a coloro che sono pronti a premiare le idee migliori, a ricevere consigli schietti, e attraggono le persone più brillanti - sapendole coltivare.

Red Hat è un'organizzazione aperta

Red Hat esiste grazie a Linus Torvalds e al sistema operativo che creò e mise a disposizione di tutti. Oggi siamo in grado di condividere, sostenere e vendere Red Hat Enterprise Linux - e molte altre tecnologie cloud, storage e middleware open source - grazie ai principi a cui ci ispiriamo: trasparenza, partecipazione e condivisione.

Tuttavia, nel suo libro, Jim Whitehurst non parla solo di Red Hat; racconta alcune delle nostre esperienze, ma anche le lezioni apprese durante la sua presenza in aziende come Whole Foods, Pixar, Zappos, Starbucks e W. L. Gore.

Chi è Jim Whitehurst

Jim Whitehurst è il CEO di Red Hat, il più grande provider di software open source al mondo. Quando Jim entrò a far parte di Red Hat, rimase affascinato dal modo in cui l'open source aveva messo in discussione il mondo delle soluzioni proprietarie tradizionali. Da quando è alla guida di Red Hat, Jim Whitehurst è diventato un sostenitore delle tecnologie open source e dei loro vantaggi, e si esprime a favore dell'applicazione dei principi open a tecnologie e a dati non proprietari di ogni tipo.

L'Organizzazione Aperta esamina come un modello aperto possa avere profondi effetti rivoluzionari sulla comunità, sulle tecnologie e sulle aziende, fino ai livelli più alti. L'autore è convinto che, per essere efficace, l'approccio open debba essere applicato a trecentosessanta gradi.

Prima del suo arrivo a Red Hat, Whitehurst ha ricoperto diversi ruoli presso Delta Air Lines, agendo in qualità di Chief Operating Officer nell'ultimo periodo. Precedentemente, Whitehurst fu socio titolare della Boston Consulting Group (BCG).

Leggi altre pubblicazioni di Jim Whitehurst

Tratto dal libro

Guidare l’organizzazione aperta

Prima di approdare in Red Hat, avevo dedicato quasi tutta la mia carriera allo studio delle imprese. Come partner del Boston Consulting Group, dove ho lavorato dieci anni (con un intervallo di due, in cui ho frequentato la Harvard Business School), ho esaminato i meccanismi interni di centinaia di aziende. Il mio compito era relativamente semplice: identificare e risolvere problemi. Ero là per aiutare le imprese clienti a riconoscere i propri limiti e a trovare la maniera di superarli. Analogamente, come chief operating officer di Delta Air Lines, ero anche il chief problem solver, e ho avuto un ruolo di primo piano nella ristrutturazione della compagnia. Ho imparato moltissimo nei sei anni che vi ho trascorso, come nei dieci anni che ho trascorso in BCG. Pensavo di sapere come dovrebbero operare le aziende ad alta performance. Pensavo di sapere cosa occorreva per gestire le persone e fare bene il lavoro. Ma le tecniche che avevo appreso, le convinzioni tradizionali di cui ero portatore in tema di management e direzione d’impresa, sono state messe in discussione quando sono entrato nel mondo di Red Hat e dell’open source.

Red Hat mi ha mostrato alternative all’approccio tradizionale alla leadership e al management, alternative più confacenti all’ambiente frenetico del business. L’approccio tradizionale al management d’impresa non era progettato per promuovere l’innovazione, rispondere ai bisogni e alle aspettative dei giovani d’oggi che chiedono di più dal lavoro (salve, millennial), od operare con i ritmi vertiginosi imposti dalle nuove logiche economiche. Ho capito, in altre parole, che il modo convenzionale di gestire le imprese aveva grossi limiti, di giorno in giorno più evidenti.

Il mio ripensamento è iniziato nel 2007. Avevo appena lasciato Delta dopo averne gestito il turnaround. Era subentrato un nuovo CEO e mi ero convinto che fosse venuto il momento di cercare nuove opportunità. Grazie al prestigio di Delta e al successo della ristrutturazione, ricevevo decine di telefonate da cacciatori di teste che mi offrivano nuove posizioni – erano in gran parte aziende da ristrutturare – in svariati settori, dal private equity alla grande industria. Devo ammettere che, dopo anni di duro lavoro, era bello essere invitato a cena e corteggiato da quei grandi nomi.

Poi ho ricevuto la telefonata di un head hunter che lavorava per Red Hat. Essendo di base un informatico – mi ero laureato in computer science alla Rice University – conoscevo il prodotto-simbolo di Red Hat, Linux, e ne avevo usato per un po’ la versione desktop. Ma non sapevo molto dell’azienda, né mi rendevo conto di quanto fosse diventato pervasivo nel frattempo lo sviluppo open source. È bastata una breve ricerca per intrigarmi. L’attrattiva stava anche nel fatto che dopo l’esperienza maturata in Delta, non avevo voglia di imbarcarmi in un altro turnaround. Avevo dovuto licenziare decine di migliaia di persone, un esercizio estremamente doloroso per chi, come me, rispetta profondamente i suoi collaboratori. Molte delle altre aziende che mi corteggiavano volevano più o meno la stessa cosa. Non me la sentivo proprio. Odiavo licenziare la gente. Red Hat, per contro, offriva un progetto molto diverso. Era in crescita. Mi dava la possibilità di contribuire a creare qualcosa di nuovo tornando nel contempo al mio vecchio amore, l’informatica. Mi sembrava incredibile che un’azienda potesse guadagnare così tanto vendendo un software che, almeno in teoria, chiunque poteva scaricare gratuitamente da Internet.

Quando ho detto al cacciatore di teste che ero interessato a un incontro, lui mi ha chiesto se non mi dispiaceva recarmi presso il quartier generale di Red Hat a Raleigh, nel North Carolina, quella domenica. Mi sono detto che la domenica era un giorno strano per fissare una riunione. Ma il lunedì successivo dovevo essere comunque a New York, perciò potevo fare una tappa intermedia, e ho accettato la proposta. Ho preso un aereo da Atlanta a Raleigh-Durham. Il taxi mi ha lasciato di fronte al palazzo che ospitava gli uffici di Red Hat, allora situati nel campus della North Carolina State University. Erano le 9.30 di domenica e non si vedeva anima viva. Le luci erano spente e, dopo una rapida verifica, ho scoperto che le porte erano bloccate. Mi chiedevo se non era uno scherzo. Quando mi sono girato per riprendere il taxi, non c’era più. In quel momento ha iniziato a piovere. E non avevo l’ombrello.

Mentre mi guardavo in giro per fermare un taxi di passaggio, Matthew Szulik, allora presidente e CEO di Red Hat, è comparso a bordo della sua macchina. «Salve», mi ha detto. «Vogliamo andare a prenderci un caffè?» Mi sembrava un modo piuttosto strano di iniziare un colloquio, ma avevo certamente bisogno di un caffè. Se non altro, riflettevo, sarei stato più vicino a un deposito di taxi sulla direttrice dell’aeroporto.

Nel North Carolina, le domeniche mattina sono tranquillissime. Ci abbiamo messo un po’ a trovare un coffee shop che aprisse prima di mezzogiorno. Non era il migliore della città né il più pulito, ma era aperto e faceva un buon caffè. Ci siamo accomodati in un séparé e abbiamo iniziato a chiacchierare.

Dopo una mezz’oretta, ero abbastanza soddisfatto di come stavano andando le cose. Il colloquio non era tradizionale, ma la conversazione procedeva a gonfie vele. Anziché discutere della strategia di Red Hat o commentare la sua immagine presso la comunità finanziaria di Wall Street – cose su cui mi ero preparato accuratamente – Szulik mi ha chiesto quali fossero le mie speranze, i miei sogni e le mie aspirazioni. Evidentemente voleva capire se ero in linea con la cultura e con lo stile di management – del tutto peculiari – di Red Hat.

Alla fine del colloquio, Szulik mi ha detto che voleva farmi conoscere Michael Cunningham, il responsabile degli affari legali, possibilmente per un pranzo anticipato. Io ho accettato, e ci siamo alzati per accommiatarci. Mentre cercava il portafoglio nella tasca dei calzoni, Szulik si è accorto di non averlo. «Oops», ha detto. «Sono senza soldi. Può fare lei?» Sono rimasto spiazzato, ma gli ho detto che mi andava benissimo di pagare il caffè.

Pochi minuti dopo, Szulik mi ha scaricato davanti a una piccola trattoria messicana dove ho incontrato Cunningham. Non era un colloquio tradizionale in un contesto tradizionale, ma un’altra conversazione stimolante. Mentre Cunningham e io ci preparavamo a pagare il conto, ci hanno informati che il lettore di carte di credito del ristorante era fuori uso. Accettavano solo contanti. Cunningham mi ha chiesto se potevo saldare il conto perché lui non aveva contanti. Dovendo andare a New York, mi ero portato dietro un po’ di soldi, così ho pagato il pranzo.

Cunningham mi ha offerto un passaggio fino all’aeroporto, e ci siamo diretti alla sua macchina. Dopo qualche minuto, mi ha chiesto: «Le spiace se mi fermo a far benzina? Siamo in riserva sparata». «Non c’è problema», gli ho risposto. Appena è iniziato il gorgoglio della pompa, ho sentito picchiettare sul mio finestrino. Era Cunningham. «Qui non accettano carte di credito», mi ha detto. «Mi presterebbe una ventina di dollari?» Cominciavo a chiedermi se era un colloquio di lavoro o una truffa.

Il giorno dopo, a New York, stavo parlando con mia moglie della insolita esperienza che avevo avuto in Red Hat. Le ho detto che le conversazioni erano state molto intriganti, ma non avevo capito se volevano veramente assumermi o solo mangiare e far benzina a sbafo. Quando ripenso a quell’incontro, mi rendo conto che Szulik e Cunningham erano persone aperte e mi trattavano come avrebbero fatto con chiunque altro fosse stato al posto mio. Sì, era abbastanza paradossale che nessuno dei due avesse con sé dei contanti. Ma per loro il problema non erano i soldi. Come è tipico dell’ambiente open source, non mettevano giù il tappeto rosso per nessuno e non si preoccupavano delle formalità. Volevano solo conoscermi, non cercare di impressionarmi o di corteggiarmi. Volevano capire chi ero.

Quella prima intervista con Red Hat mi ha dimostrato che lavorare qui sarebbe stato diverso. Non c’erano una gerarchia tradizionale e un trattamento speciale per i leader, perlomeno come lo si intende in quasi tutte le altre aziende. Con il tempo, ho scoperto inoltre che Red Hat credeva nel principio open source della meritocrazia; che qui vince l’idea migliore, indipendentemente da chi la propone, il numero uno o un tirocinante estivo. In altri termini, le prime esperienze che ho avuto in Red Hat mi hanno dato un’idea di quello che sarebbe stato il futuro della leadership.

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